Ettore Schmitz (1861-1928) si firmò, per la prima volta, Italo Svevo in occasione della stampa, in sole 1000 copie e a sue spese, di Una vita, il romanzo d’esordio, la fatica letteraria che coronava il metodico apprendistato sulle colonne dei periodici, negli scritti d’occasione con prove rimaste nel cassetto del sempre incontentabile artista.
Era il 1892 la “Libreria Editrice Ettore Vram” (successore -recita la copertina- di un Coen e di un Colombo, figli della Mitteleuropa askenazita) curò le 400 (+ 4) pagine di carta leggera, impresse con garbo e senza troppa fantasia, secondo i canoni tipografici in voga nell’ultimo ottocento. Il formato era, nell’esemplare da me consultato di mm 128 x 185 (esemplare che mi è parso, pur se privo di barbe, integro); il titolo oggi celebre- richiamava il saggio di maiuscole bodoniane del “Manuale Tipografico” con un piccolo fregio per ravvivare la seria brossura color chiaro-nocciola.
L’autore critica subito quanto aveva commissionato e scrive, con tipica autoironia sveviana, alla moglie Livia Veneziani (all’epoca solo fidanzata) una dedica bizzarra e gustosa, ma anche piena d’ affetto e di pathos:
“A Livia, brutta legatura e brutto libro ma nondimeno per una sposa, un dono insolito. Perciò e soltanto perciò sono lieto d’aver sofferto tanto per fare e per pubblicare questa roba”.
Il volume ebbe tre recensioni: due anonime e locali, e quella solitaria apparsa sul Corriere della Sera a firma di Domenico Oliva (1860-1917) il giornalista che fu poi direttore del quotidiano milanese nel biennio di fine secolo (oltre che autore, egli stesso, di versi e di drammi un po’ datati, come il “Robespierre”).
Dopo un lungo silenzio (come di consueto operoso) Ettore Schmitz rivestì i panni di Italo Svevo e decise di affrontare, per la seconda volta, la cortina d’indifferenza da cui era stato circondato.
Dal 15 giugno al 16 settembre del 1898 Senilità esce su “L’Indipendente” nella cosiddetta narrativa d’appendice, a puntate, tutte ormai introvabili.
Nello stesso anno l’opera appare in volume, ancora una volta a spese dell’autore, sempre presso la “Libreria Editrice Vram”, con la stampa del tipografo triestino Augusto Levi.
La brossura ha qualche pretesa in più: i caratteri, ancora bodoniani, della copertina sono impressi a due colori, rosso e nero; vi è un sottotitolo, “romanzo”, nella speranza di incoraggiare l’acquisto; la carta, lucida quasi, è di maggior costo. Sono 258 (+2) pagine; l’esemplare non rifilato dell’edizione originale misura 136×195, la copertina è di un color tabacco chiaro.
Anche questa edizione -come la precedente- è di estrema rarità.
Critica e pubblico non lesinarono a Ettore Schmitz un nuovo rumoroso silenzio.
” questo romanzo non ottenne una sola parola di lode o di biasimo dalla nostra critica mi rassegnai ad un giudizio tanto unanime (non esiste un’unanimità più perfetta di quella del silenzio) e per 25 anni m’astenni dallo scrivere”. (Dalla prefazione alla seconda edizione di Senilità. Bologna Morreale 1927).
Val solo la pena, per spirito di ricerca, segnalare due eccezioni (che non consolarono tuttavia Italo Svevo): Felice Cameroni (1844-1913, fece conoscere per primo Huysmans in Italia) sul “Sole” a Milano e Ida Finzi (1867-1946), la celebre Haydee sul “Caffaro” di Genova.
Nel marzo del 1905 l’organico della “Berlitz School” triestina si arricchì di un nuovo insegnante: James Joyce, di 23 anni.
In quell’anno l’artista inglese pubblicherà (come Svevo) a sue spese “The Holy Office” e lavorerà alacremente alla stesura dei “Dubliners”.
Nel 1907 (in pieno periodo di “astensione”) Ettore Schmitz diviene l’allievo privato del giovane Joyce e fra i due artisti nacque un fortunato sodalizio, fondato non solo sulla reciproca stima, ma, sempre più solidamente, sull’amicizia.
Nel 1921 Svevo portò a Joyce circa quattro chili di manoscritti (si veda la lettera del 5 gennaio, pubblicata da Livia Veneziani), con l’ultimo episodio di “Ulisse”, ormai pronto per la stampa dell’anno successivo.
Ettore Schmitz non poteva più “astenersi”; era giunto il tempo della terza sfida, vissuta con l’angoscia di chi aveva già sofferto assai.
Lucia di Maio (già pubblicato nella rivista Wuz anno I-2)
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