Anche James Joyce era un self-publisher, come Marcel Proust e Virginia Woolf? In un certo senso, sì. Come sappiamo Marcel volle pubblicarsi da solo la Recherche, per ripicca verso il suo amico editore Andrè Gide, che aveva rifiutato il dattiloscritto. Virginia invece si stampava i libri nel salotto di casa sua, a mano. La vicenda dell’autopubblicazione dell’Ulisse di Joyce è ancora più inconsueta, e riguarda una piccola gloriosa libreria parigina, Shakespeare & Company.
Questa storia, nota ai più, merita calma, va ripercorsa dal principio. Proverò in umiltà a rievocarla per te, viandante che passi di qua.
Siamo all’inizio degli anni Venti, James Joyce va a Parigi per una gita di qualche giorno (ci rimarrà per anni). E’ appena scappato da Trieste, che con tutto quel vento lo ha stancato, e sta terminando la stesura del suo monumentale Ulisse. Ma nessuno intende pubblicare il libro, mannaggia. Anzi, quel testo è addirittura accusato di oscenità, in particolare per via dell’episodio 13, in cui il protagonista Leopold Bloom si lascia andare a fantasie piuttosto disinibite nei confronti della giovane Gerty MacDowell, moderna Nausicaa.
Nulla di grave, se paragonato all’overdose di sesso estremo sbandierato ovunque ai giorni nostri, ma il 1920 è appunto un’altra epoca: negli Stati Uniti l’Ulisse è una lettura da criminali, circola solo sottobanco fra i rari adepti; in Gran Bretagna nessuno lo vuole. Abbiamo già visto che Joyce propone il libro anche a un pioniera del self-publishing, l’illustre collega Virginia Woolf, peraltro beccandosi l’ennesimo due di picche.
E quindi James, poverino, si ritrova a passeggiare pensoso per le viuzze del Quartiere Latino, come i molti scrittori stranieri perdigiorno e squattrinati che affollano Parigi. E come quasi tutti loro finisce nello splendidobookshop al numero 12 di Rue de l’Odéon: Shakespeare & Company.
La titolare di Shakespeare & Co. è una ragazza americana, si chiama Sylvia Beach, e la letteratura rappresenta la sua religione. Joyce diventa un frequentatore assiduo della libreria. I due parlano dell’Ulisse, lei lo legge, lui le racconta che l’opera è bandita. Un grande scrittore sconfitto dalla censura non può che commuovere una libraia.
Così Sylvia Beach diventa l’editore – o forse sarebbe meglio dire: l’impresario – di Joyce. E’ lei ad occuparsi di tutto. Organizza liste di sottoscrizione per raccogliere fondi e finanziare la stampa (oggi lo chiamano crowfunding). Prende accordi con una tipografia a Digione per produrre la tiratura. Non si dà neppure pensiero di stilare contratti con l’autore: lo venera, la fiducia non serve.
Il giorno del quarantesimo compleanno di Joyce, il 2 febbraio 1922, Sylvia Beach va alla stazione ferroviaria per ritirare le prime due copie di Ulisse. Una la terrà per sé, da esporre fieramente nella vetrina della sua libreria. L’altra la consegna a Joyce, come regalo.
Poi, sempre in treno, arrivano nuove copie. Sono poche ma sono le uniche ufficiali edite al mondo, e vanno tutte sugli scaffali di Sylvia Beach.
Forse Sylvia lo fa per la notorietà (“Ulisse farà diventare famosa la mia libreria!”, scrive in una lettera alla sorella maggiore). Sicuramente lo fa per la soddisfazione di lavorare, prima al mondo, da editore a un romanzo che sa essere un capolavoro destinato a rivoluzionare la letteratura.
Infatti nel 1932 Joyce le tira il bidone. Firma con un grande editore americano, Random House, e intasca i quattrini senza riconoscere un centesimo a Beach. Si comporta pure da maleducato: non la avvisa neppure.
Joyce e Beach si perdono di vista. Lei lo ammira ancora, sia chiaro, anche se ha perso una barca di soldi per star dietro all’Ulisse self-published. Ma Shakespeare & Company resiste comunque alle avversità economiche e continua a essere luogo di ritrovo per cultori delle lettere in lingua inglese. Nel 1940 però Parigi piomba nel buio dell’invasione nazista. James pensa bene di levare le tende, fugge in Svizzera, a Zurigo, dove nel ‘41 muore esausto dalle molte malattie.
Sylvia invece resta al suo posto, in libreria. Non è bendisposta nei confronti dei nuovi padroni della città. Un giorno rifiuta di vendere a un ufficiale tedesco la sua copia di Finnegans Wake, e per questo non la passa liscia. I nazisti le confiscano i libri e la costringono a chiudere il negozio.
Per sempre. Sylvia Beach viene perfino internata.
Può finire così tristemente questa storia? Ma no. No che non può.
La libraia di Shakespeare & Co, la pioniera del self-publishing, miss Sylvia Beach, sopravvive alla spaventosa guerra mondiale. Nella Parigi del 1944, l’amico Ernest Hemingway celebra la ritrovata indipendenza anche del piccolo territorio in Rue de Odéon, come se fosse piccola nazione liberata. Sylvia però oramai è stanca, ha una certa età, e poi quel posto le ricorda la sua amata Adrienne. Non se la sente di tornare a rialzare le saracinesche. Preferisce scrivere le sue memorie, raccontare a tutti i bei giorni della scoperta dell’Ulisse e di quel signore irlandese villano e geniale.
Ma entra in scena un altro libraio, un di lei compatriota innamorato di Parigi e di quella coraggiosa avventura editoriale, tale George Whitman, un ammiratore sfegatato di Beach. Le chiede di poter usare il nome Shakespeare & Company. E lei dà il permesso.
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